Di famiglia originaria di Senigallia, nelle Marche, Torcoletti è nato a Fiume il 3 maggio 1881 da Giovanni e Francesca Dergnevich. Dopo aver concluso il liceo classico, ha frequentato il Seminario teologico di Segna, dove è stato ordinato sacerdote nel 1904, per poi insegnare religione nelle scuole pubbliche di Fiume.
Combattivo e polemico, ha contrastato le correnti laicizzanti e il nascente socialismo fiumano. Alcuni suoi saggi del tempo sono “Il darvinismo”, “Cenni storici sulla massoneria fiumana” e “Crederemo ai miracoli nel sec. XX?”. Si è poi avvicinato agli studi storici, rivelandosi un infaticabile ricercatore di notizie. Nel 1911 ha fondato un giornale di propaganda religiosa, “Il Risveglio”, per cui scriveva articoli di carattere religioso, di cui alcuni anche di storia locale, e che ha avuto diffusione anche al di fuori di Fiume, raggiungendo i circoli cattolici del goriziano, del Trentino e della Dalmazia.
Tra il 1917 e il 1918 ha fondato il circolo “A. Manzoni”, per dar voce alla coscienza nazionale dei giovani, ma è durato solo un anno perché la polizia ungherese, sospettando tendenze irredentistiche, ha poi deciso di sopprimerlo. Alla vigilia del crollo della Monarchia austro-ungherese, ha costituito un comitato segreto fusosi con il Consiglio Nazionale.
Tra il 1918 e il 1924, ha partecipato attivamente alle vicende politiche della città, pubblicando una serie di opere che hanno suscitato un eco vivace, tra cui “Il Plebiscito dei morti”. Nel 1919, ha fondato assieme ad Annibale Blau la sezione fiumana del Partito popolare italiano, e nel 1920 ha approvato l’impresa di Gabriele D’Annunzio nella sua fase iniziale. Dopo il moto di rivolta del 3 marzo 1922 che ha portato alla caduta del governo di Zanella, ha cercato, senza successo, un compromesso tra le parti avverse.
Nel 1945, è stato fermato dalla polizia segreta di Tito e processato sotto l’accusa di aver nel 1919 provocato l’allontanamento del parroco croato Kukanic. Il processo si è concluso con l’intimazione di lasciare la città. Fermatosi prima a Palermo, si è poi stabilito a Zoagli in Liguria, ospite della Casa della Compagnia di S. Paolo, dove ha potuto riprendere i suoi studi fiumani. È morto a Zoagli il 20 novembre 1956.
Ne “Il Plebiscito dei Morti” del 1919, ha raccolto le epigrafi del cimitero per dimostrare che l’italianità di Fiume non era recente perché anche la maggioranza delle più antiche era in lingua italiana. È stato sequestrato dal comando francese per delle espressioni considerate offensive per i croati, ma alcune copie sono sfuggite al sequestro e sono state distribuite in Italia, arrivando ad essere ristampato dal Consiglio Nazionale in una versione purgata dalle espressioni incriminate.
Nato a Fiume il 9 settembre 1885 da Antonio e Ersilia Sillich, noto come scrittore, poeta, giornalista e politico. Il nonno materno era di Albona, la nonna invece veneziana.
È stato tra gli ispiratori della “Giovane Fiume” nel 1905, dando il via al movimento irredentista. Il padre lo avrebbe voluto come suo successore nell’industria di famiglia, ma l’amore per la politica e per l’arte lo hanno portato al giornalismo.
Nel 1910 ha assunto la direzione del giornale “La Bilancia”, prendendo poi il posto di Emilio Marcuzzi come direttore de “La Voce del Popolo” quando era stato bandito da Fiume in quanto membro attivo della Giovane Fiume. Nel 1914 è stato eletto consigliere della Rappresentanza municipale, sciolta subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia, e nel 1915 è riuscito ad arrivare a Roma per arruolarsi volontario. Risalgono al periodo della guerra molte sue pubblicazioni, poiché era stato scelto dalla Dante Alighieri per preparare il materiale documentario sulle rivendicazioni italiane.
Tornato a Fiume nell’estate del 1919, mentre era in corso la preparazione dell’impresa di D’Annunzio, ha fondato con Iti Bacci “La Vedetta d’Italia”, che ha diretto fino a novembre 1920, quando D’Annunzio lo ha spedito a Roma in qualità di delegato della Reggenza italiana del Carnaro presso il governo italiano. Ha ripreso la direzione nell’ottobre 2021 per condurre la campagna polemica contro il governo di Zanella, allora capo dello Stato libero di Fiume.
Nel maggio 1923 è stato chiamato a Roma come caporedattore del Corriere Italiano, che ha poi lasciato per dei disaccordi con l’Avv. Filippelli, coinvolto successivamente nel delitto Matteotti. È passato quindi al “Mezzogiorno” di Napoli, per poi concludere la sua carriera giornalistica a Milano, come redattore capo de “L’Ambrosiano”.
La sua carriera ha poi assunto una svolta diplomatica, iniziando a lavorare per il Ministero degli Affari Esteri nel 1928, prima come console a Bratislava, poi come primo segretario d’ambasciata a Varsavia. Dal 1935 in poi, dopo una breve parentesi presso il Ministero della stampa e propaganda come vicedirettore generale, è stato console a Graz e poi a Tolone fino all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940. Nel settembre del 1944, è stato preso prigioniero dai russi con la moglie, e tenuto per sei anni nelle carceri a Mosca. Quando è stato liberato, ha appreso che la moglie era morta pochi mesi dopo l’inizio della prigionia. Nei lunghi mesi di reclusione, ha scritto molto sia in versi che in prosa, ma non gli è stato consentito portarsi dietro nulla. È riuscito a ricostruire in parte, dalla memoria, in “Piccola odissea romantica”.
È morto a Milano nel luglio del 1969, dove viveva accanto alla figlia.
In Prigioni Moscovite, Odenigo opera una testimonianza della tragica avventura vissuta a Mosca. Rievoca con distacco, a volte anche con sottile ironia, le sofferenze sopportate con animo virile. Tutto questo in un linguaggio vivo e teso nella rievocazione incisiva dei fatti. Da ammiratore di Piero Foscari, uomo politico importante nei primi due decenni del XX secolo, gli ha dedicato una biografia, in cui, tra le altre, riporta l’atteggiamento di Foscari durante le trattative che precedettero la firma del Trattato di Rapallo con la Jugoslavia, nel 1920.
Industriale e politico, è nato a Fiume nel 1876, figlio dell'industriale fiumano Luigi Ossoinack. Dopo aver compiuto gli studi medi inferiori nella sua città natale, ha frequentato l'Accademia di Commercio a Bratislava e in seguito l'Accademia delle belle arti di Monaco di Baviera.
Difensore dell'autonomia fiumana in seno all'Austria-Ungheria ma in opposizione al suo concittadino Riccardo Zanella, ha aderito alla Lega autonoma, diventando nel 1916 membro non eletto alla Dieta dell'Ungheria a Budapest. Alla fine della Prima guerra mondiale, proponeva per la sua città il diritto all'autodeterminazione e il 30 ottobre 1918 fondava un "Consiglio Nazionale Italiano" presieduto da Antonio Grossich per reclamare l'annessione di Fiume all'Italia contrapponendosi così ad un "Consiglio Nazionale Croato" che chiedeva l'annessione della città al neocostituito Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Nel 1919 ha partecipato come membro fiumano alla Conferenza di pace di Parigi e il 3 marzo dello stesso anno è stato nominato "Rappresentante di Fiume" alla conferenza di pace come "ultimo deputato fiumano al parlamento ungherese". Durante la conferenza di pace ha scritto un memorandum scagliandosi contro la politica degli Asburgo del divide et impera. Il suo memorandum e il suo incontro con il presidente degli Stati Uniti il 4 aprile 1919 il giorno dopo l'incontro con David Lloyd George, Vittorio Emanuele Orlando e Georges Clemenceau non hanno poi ottenuto l'annessione all'Italia di Fiume, continuando invece a prevalere la posizione di Wilson.
Nello stesso anno ha aderito alla Reggenza italiana del Carnaro di Gabriele D'Annunzio che si è poi chiusa nel 1920 con il Natale di sangue. Era contrario allo Stato libero di Fiume guidato dal suo avversario politico e autonomista Riccardo Zanella, continuando a proporre l'annessione della città all'Italia come porto franco.
Dopo l'annessione della città all'Italia nel 1924 in seguito al Trattato di Roma, si è ritirato dalla vita politica avviando l'attività di industriale prima a Fiume e poi in Lussemburgo. È tornato a Fiume nel 1939, rimanendoci fino a poco dopo l'occupazione jugoslava del 1945, e ha poi deciso di trasferirsi a Venezia, risultando un membro molto attivo tra gli esuli giuliani. Negli ultimi anni di vita si era trasferito a Merano, dove è morto nel 1965. In questi ultimi anni ha redatto “Atto d’accusa” (Monciatti ed., Trieste, 1960) in cui ha raccolto i documenti della sua ultima attività politica.
Scienziato di fama europea, è nato a Fiume il 17 agosto 1872, a due anni dal ritorno della città all’Ungheria. Nonostante il clima di distensione tra il governo ungherese e il Comune, Lenaz ha sempre avuto sin dall’adolescenza occhi e cuore rivolti all’Italia.
Si è formato nel liceo Ginnasio dove ancora la lingua d’insegnamento era esclusivamente italiana. Poi ha proseguito a Vienna come studente universitario della facoltà di medicina, dove è stato eletto presidente del Circolo accademico italiano della città. Dopo la laurea nel 1895, è rimasto altri sei anni come assistente nel policlinico delle malattie nervose diretto dal prof. Benedikt, e poi nella clinica medica del prof. Neusser. Nel 1901 è tornato a Fiume per dirigere il laboratorio batteriologico, appena istituito, dell’Ospedale civile.
In campo politico, aderiva al Partito autonomo in cui vedeva l’unico garante dell’autonomia ed italianità di Fiume. Sosteneva inoltre il circolo “La Giovane Fiume”, creato dai giovani che ormai guardavano all’Italia come unica salvezza, e per cui si è candidato alla Rappresentanza.
Nel 1918 è stato membro del Comitato direttivo del Consiglio nazionale e firmatario del Proclama d’annessione all’Italia del 30 ottobre. Dopo i moti antifrancesi del luglio 1919 e le decisioni prese dalla commissione interalleata d’inchiesta, ha considerato necessario l’intervento di Gabriele D’Annunzio, accogliendolo il 12 settembre come un liberatore.
Nel 1934, Mussolini intendeva nominarlo Senatore, ma quando ha saputo che la motivazione era per “meriti patriottici”, ha rifiutato, ritenendo l’aver servito la patria non un merito, bensì un dovere.
È morto nella sua villa di Laurana il 2 ottobre 1939, senza riuscire a portare a termine l’ultima sua opera, Lezioni di neurologia.
I suoi studi medici si sono concentrati su varie branche della medicina. La sua opera maggiore sono le Lezioni di ematologia (Wassermann ed.), in cui sostiene che la leucemia è il cancro del sangue. Ha poi rilevato per primo l’importanza del sistema nervoso extrapiramidale. Tra le sue ultime battaglie, si ricorda quella contro le infezioni latenti di bocca, denti e tonsille, quali cause della patologia delle nefriti, dei remautismi articolari e dei vizi di cuore.
Nel 1930 gli è stata conferita la medaglia d’oro della Stampa medica e nel 1937 l’encomio solenne dell’Accademia d’Italia.
Nata a Fiume il 15 luglio 1876, è nota per essere stata un’educatrice di grandi qualità, ricca di interessi culturali e politici. Ha vissuto nel quartiere popolare di Cittavecchia, affermandosi culturalmente per la sua passione per i libri e per il suo ingegno.
Grazie al supporto della famiglia, si è diplomata negli istituti magistrali di Gorizia e Capodistria. Diventata maestra, è stata assunta nelle scuole del Comune, passando poi alla Scuola cittadina, corrispondente all’istituto tecnico inferiore italiana istituito dalla riforma Gentile. Grazie ad una borsa di studio del Comune, ha frequentato a Firenze, negli anni 1907-1909, i corsi del Magistero superiore e dell’Università. Lì ha conosciuto durante un congresso di insegnanti Giuseppe Lombardo-Radice, con cui era da anni in rapporti di collaborazione nel campo della pedagogia. Questo rapporto si è poi trasformato in amore, con il loro matrimonio tenutosi a Fiume nel settembre del 2010.
Dopo il matrimonio, si è trasferita a Catania dove il marito insegnava pedagogia all’Università. L’intera famiglia, inclusiva delle due figlie avute, si è poi trasferita a Roma, dove Harasim ha vissuto fino alla morte nel giugno del 1961.
Sull’insegnamento della lingua italiana (1906) è stato favorevolmente recensito da Benedetto Croce e segnalato a Lombardo-Radice, poi futuro marito. Nella rivista pedagogica “Nuovi Doveri”, diretta dallo stesso Lombardo-Radice, ha pubblicato gli articoli Esercitazioni di Lingua, dove descrive le sue esperienze di avanguardia nell’insegnamento della lingua, e Civiltà italiana e ungherese, dove sostiene la superiorità del sistema scolastico ungherese rispetto alla scuola dell’epoca.
Molto note le sue Lettere da Fiume, inviate nel 1909 alla Voce di Firenze e riguardanti le condizioni politiche e culturali della città. Le lettere rappresentano un esame obiettivo ma al tempo stesso amaro dei pericoli che minacciavano l’italianità di Fiume.
Nato il 5 aprile del 1948 nel campo profughi di Servigliano, in provincia di Fermo (Marche) da genitori fiumani, quando aveva tre mesi è giunto al Villaggio Giuliano di Roma, insieme ad altri duemila profughi provenienti dall’Istria, Fiume e la Dalmazia.
Queste origini, assieme all’aver sposato una donna di madre greca, dell’isola di Kos, influenzeranno gran parte della sua opera letteraria. Il Villaggio Giuliano e la sua comunità compaiono nel suo primo romanzo “Massacro per un Presidente” edito da Mondadori nel 1981, che per primo affronta il problema del terrorismo rosso in Italia. Fino a quel momento Zandel aveva pubblicato le raccolte di poesie: “Primi Giorni”, edito da O.E.L. di Roma, “Ore ferme”, edito dalla SAL di Trieste, e il saggio “Invito alla lettura” di Andrić, edito da Mursia. Il romanzo “Una storia istriana” del 1987, edito da Rusconi, è stato finalista al Premio Napoli di quell’anno.
È stato dirigente di Telecom Italia, responsabile delle attività editoriali. In precedenza, è stato consulente editoriale delle case editrici Mondadori, Bompiani e Rusconi. Attualmente è editor senior della Oltre Edizioni, per la quale cura le collane di narrativa italiana e straniera, e di saggistica "Letture del mondo", e Direttore Editoriale di M.E.A. Phoenix, società che offre servizi editoriali alle case editrici.
Il primo romanzo di Zandel “Massacro per un Presidente” è apparentemente sul modello del thriller nel registrare le manovre di alcuni gruppi terroristici ma, diversamente dai romanzi seriali, non celebra il trionfo della giustizia né consegna il colpevole alla pubblica accusa. La storia è inoltre intrecciata a un racconto esterno che ruota attorno alla figura di Raul Radossi, alter ego dell'autore nonché io narrante, in cui predominano le ragioni intime di una scelta di vita che nascono nel paese d’origine dei nonni di Zandel, Fiume.
Il vero tema del romanzo è infatti la ricerca da parte di Raul della propria identità, del tentativo di capire quale è il rapporto che lo lega da una parte con il mondo degli esuli istriani e dall’altra al mondo variegato della città in cui vive, Roma, ma in cui non ha le sue radici biologico-affettive. Emerge da questa condizione l'impossibilità di nutrire nostalgia per una terra che non ha vissuto ma che è quella della sua gente, unità all'incapacità di sentirsi a proprio agio in una città che non sente sua.
“Una storia Istriana”, pubblicato nel 1987, racconta la storia di Ive Miculian, minatore generoso, ma anche in questo caso, tuttavia, i romanzi sembrano due, e questa volta il tema non è la ricerca della propria origine, o identità, ma quello della propria discendenza, o del futuro.
Anche il romanzo “I confini dell’odio” (2002) si gioca sulle origini dell'autore, raccontando una storia ambientata tra Fiume e i Balcani al termine della guerra interetnica del 1991-1995 nella ex Jugoslavia. Un figlio, Bruno Lednaz, alter ego dello scrittore, accompagna la salma del padre, che aveva chiesto di essere sepolto a Fiume, sua città natale, allora italiana, oggi croata, nel momento in cui da pochi mesi è stato firmato a Dayton, negli Stati Uniti, l’accordo di pace che sancisce la pace e la divisione dei territori della ex Jugoslavia tra croati, serbi, bosniaci e serbo-bosniaci.
Tuttavia, ai confini, è ancora vivo l’odio innescato dalla guerra. Bruno se ne accorge quando, in attesa di un posto al cimitero per il padre, decide di accompagnare un parente in Lika, una regione della Croazia. Da questo momento comincia per lui un’odissea che sarà, insieme, denuncia dei mali che accompagnano ogni guerra e condanna della guerra stessa. Nel 2011 viene pubblicato un altro romanzo di denuncia che si focalizza nello specifico sul tema delle foibe e dell’esodo, “I testimoni muti”, in cui ricordi personali e storia s'intrecciano sul filo di una memoria personale che si trasforma in storia collettiva.
La voce narrante è quella di un bambino nato in un campo profughi, cresciuto in estrema povertà circondato dal silenzio doloroso degli adulti. L'incontro con un uomo, un testimone muto della tragedia, lo conduce verso una nuova consapevolezza delle sue radici e della sua storia.
Zandel si è anche concentrato su opere più didascaliche, come “Apologia della lettura” del 2020, in cui l’autore mette a fuoco tutta la sua esperienza di scrittore, lettore appassionato, recensore di libri, lettore di testi che gli autori inviano alle case editrici con la speranza di essere pubblicati, con l’obiettivo di condividere con tutti gli amanti dei libri e della lettura un percorso che impedisca la resa di fronte ai mille ostacoli che nella quotidianità si frappongono tra il desiderio di leggere e il tempo per farlo.
Note critiche ispirate a “Le "ore ferme": il rapporto tra storia e identità nella letteratura di Diego Zandel”, di Cristina Benussi in "La Battana" n. 97-98, 1990.
Il padre, Silvio Sincovich, era un magistrato, dapprima pretore e in seguito Consigliere di Corte d'appello, e mutò il cognome in Vegliani negli anni Trenta, costretto da una disposizione che interdiva gli uffici pubblici a chi avesse un cognome ritenuto non italiano.
Nato a Trieste nel 1915 come cittadino austro-ungarico, e diventato italiano a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, Franco Vegliani è cresciuto nelle diverse località in cui il padre aveva di volta in volta i suoi incarichi: l'isola di Veglia, Abbazia e Fiume, fino all'inizio della Seconda guerra mondiale.
Ha combattuto sul fronte dell'Africa settentrionale, trascorrendo poi quattro anni di prigionia in Egitto. Negli anni della sua lunga prigionia in Egitto ha maturato la sua esperienza narrativa, dando vita all’opera “Due racconti”. Dalla fine della guerra ha vissuto a Milano, esercitando la professione di giornalista.
Dal punto di vista letterario, ha esordito nel 1935 con “Saggio su Ugo Betti”. In seguito, ha pubblicato Malaparte (1957), un'ampia biografia di Curzio Malaparte di cui era stato collega a "Tempo" e di cui aveva raccolto le confidenze negli ultimi mesi di vita.
Nel 1958 ha pubblicato il suo primo romanzo “Processo a Volosca”, a cui sono seguiti “La frontiera” (1964), “La carta coperta” (1972), e postumo “Lettere in morte di Cristiano Bess”. La morte lo ha colto nel 1982.
Nel primo volume di racconti “Un uomo del tempo” (1940) emerge l’attenzione dello scrittore per le implicazioni e le sfumature psicologiche della relazione con le origini e le alterne vicende dei confini, attraverso delle prose che prefigurano il paesaggio e l’umanità dei successivi romanzi: le isole dalmate, la guerra e l’esilio.
Nel “Processo a Volosca” si narra la vicenda del procedimento per omicidio tenuto, nell’anteguerra, a carico di quattro giovani, tre slavi e un italiano. Il confronto tra il narratore, di condizione borghese, e gli imputati, di umili origini, tra le istituzioni e la realtà umana che le sfugge e le contraddice, è il fulcro del romanzo, che rivela una crisi etica eversiva dei codici tramandati e il fallimento di quella colpevole innocenza sinonima di passiva accettazione dell’ordine tramandato. Riferendosi al Processo a Volosca, Claudio Magris (1982) ha scritto che Vegliani è stato “autore di uno dei libri più belli della letteratura triestina del dopoguerra”.
Nel romanzo “La frontiera”, l’idea di frontiera si precisa nel racconto parallelo di un alfiere dell’esercito austroungarico, scomparso nel corso di un’azione militare in pieno fronte, e di un giovane ufficiale italiano nel 1941. Per entrambi, l’esperienza del conflitto e della insospettata divergenza delle linee tracciate da una demarcazione geografica e umana controversa rivela la fragilità delle definizioni e la scabrosità di un confine che si riverbera nella quotidianità delle scelte ed è somma di confini che la coscienza valica o elude. Da questo libro è stato tratto l'omonimo film diretto da Franco Giraldi, che ha tra i protagonisti Raul Bova, Claudia Pandolfi, Omero Antonutti e Marco Leonardi (1996) ed è stato proiettato al festival di Venezia. Nel 1996 fu anche rappresentata la versione teatrale ad opera di Ghigo de Chiara da parte del Dramma Italiano di Fiume in collaborazione con il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia.
La “carta coperta” porta a compimento gli altri due romanzi con il racconto della “frattura” del narratore dai luoghi della nascita e della fine dell’indifferenza che ha lungamente sopperito ad ogni rischioso richiamo all’identità negata. Al narratore, giudice istruttore in una città di provincia, è affidato il caso di un giovane jugoslavo accusato d’omicidio e scampato d’oltreconfine, dallo stesso paese del giudice. La spontanea relazione instaurata da questi con l’indiziato è però contraddetta dalla discrepanza dei tempi e delle esperienze storiche: con riferimento all’esodo dei giuliano-dalmati, a conclusione della seconda guerra mondiale, il protagonista deve distinguere la sua vicenda da quella collettiva.
I romanzi di Vegliani, recuperando eventi e regioni decaduti dalla memoria nazionale, suggeriscono una riflessione storica sul processo di formazione di nazioni e culture nella regione giuliana, sino ai suoi estremi riflessi sui destini individuali. Diversamente da altri autori di quest’area. Vegliani non è stato propriamente un esule, se non a posteriori, rientrato in Italia a conflitto già concluso e ceduta la sua città d’elezione, Fiume, alla Jugoslavia. La sua relazione con le origini, istaurata mediante la letteratura, si ricostruisce, in assenza di un’esperienza tragica e diretta, sulla ricomposizione interiore delle rappresentazioni e dei conflitti del suo confine.
Note critiche ispirate a “L’origine altra. Inquietudine e identità nella narrativa di Franco Vegliani”, di Patrizia C. Hansen in “La Battana”, 97-98, 1990.
Nato a Fiume nel 1909, ha insegnato Letteratura magiara all’Università di Torino. Di questa Letteratura ha tradotto numerosi testi, sia lirici sia narrativi sui quali ha lavorato intensamente anche come saggista. È autore di molte opere di poesia e di narrativa, soprattutto di carattere autobiografico.
Una parte cospicua della sua attività saggistica e della sua attività di editore di testi è dedicata alla storia dei simboli e dei miti religiosi. Redattore di gran parte dei “Breviari di mistica” pubblicati dalla casa editrice Bocca di Milano, Santarcangeli è anche autore di una serie di studi, tra cui i seguenti “Hortulus Litterarum ossia La Magia delle Lettere” Milano, Scheiwiller, 1965; “Il libro dei Labirinti. Storia di un mito e di un simbolo”, Firenze, Vallecchi, 1967 e Milano Frassinelli, 1984 e 1989).
Secondo Santarcangeli, l’esilio è una denuncia delle contraddizioni dell’uomo moderno, segnato dal continuo perpetuarsi della difficile ricerca di sé, di un posto il cui sentirsi a proprio agio, di un’identità in grado di rispondere alla precarietà dell’essere.
Il messaggio di Santarcangeli testimonia ed esorcizza la solitudine dell’individuo, il destino dell’esule di essere “doppiamente solo”, e il bisogno morale e civile del “diverso” di essere più saggio, più generoso e migliore degli altri uomini, come emerge dal romanzo di narrativa di carattere autobiografico “Il porto dell’aquila decapitata” (1959). Tratta di una Città Inesistente, diventata per lo scrittore un porto della memoria oltre l’oceano del tempo. Il corpo fisico di quella città è stato davvero decapitato dalla storia: la sentenza irrevocabile fu emessa quel 10 giugno del’40 e venne eseguita 5 anni dopo.
Di 44 capitoli alcuni sono solo delle brevi riflessioni, dei momenti poetici; altri sono più lunghi e vi si riconosce la densità e l’acutezza di Santarcangeli saggista. Altri capitoli sono dedicati specificamente alla città, ai suoi luoghi caratteristici ed anche ai suoi dintorni, oltre che alla sua storia e alla sua cultura, pagine in cui ritorna l’esilio come leitmotiv del libro.
Note critiche ispirate a “La città inesistente. Il tema dell’esilio Ne «Il porto dell’aquila decapitata»” di Paolo Santarcangeli in “La Battana”, n.97-98, 1990.
Nato l’11 ottobre 1905 a Fiume nel rione popolare di Cittavecchia da Adolfo Ramous e da Maria Giacich, ultimo di sei figli, è rimasto orfano di padre a due anni. Dal 1915 al 1919 ha studiato presso la Scuola comunale di musica, proseguendo poi privatamente gli studi di violino e pianoforte per dieci anni. Dal 1924 al 1925 ha frequentato l’Istituto tecnico Leonardo da Vinci, per poi iscriversi all’Istituto magistrale “Egisto Rossi”. Nel contempo, ha lavorato, rispettivamente, alla Contabilità di Stato (1922-1924), alla Prefettura (1924-1925), e poi a Milano presso una ditta di Assicurazioni, in cui è rimasto fino al maggio del 1928. Rientrato a Fiume, ha lavorato per due anni al Municipio.
Si è avvicinato al giornalismo dal 1923, collaborando fino al 1925 alla rivista “Delta” di Fiume, diretta da Antonio Widmar. Nel 1929 ha avviato la collaborazione col quotidiano “La Vedetta d’Italia” in veste di critico teatrale e musicale, per poi diventare l’anno successivo redattore. Nel 1942 è stato licenziato per decisione di Carlo Scorza, all’epoca capo dell’Ente Stampa, con la vaga motivazione di riduzione del personale.
Nel settembre del 1936 ha sposato la dalmata Matilde Meštrović, nipote dello scultore jugoslavo Ivan Meštrović. Nel 1944, a pochi mesi dall'occupazione di Fiume da parte dell'esercito jugoslavo, ha accettato la direzione de “La Vedetta d’Italia” su sollecitazione delle autorità cittadine che desideravano un moderatore alla guida del quotidiano. La Gestapo, tuttavia, non si fidava troppo di Ramous, per cui nell’estate del 1944 lo ha convocato per sottoporlo a stringenti interrogatori, mentre la sua abitazione veniva perquisita.
Nel 1946 è nato il Dramma Italiano con Pietro Rismondo direttore per breve tempo, e Ramous lo ha poi seguito nella carica. Nei suoi 15 anni di direzione gli sono state affidate 46 regie nonché alcune traduzioni di commedie jugoslave. Nel 1954, recandosi a Milano con Paolo Grassi, direttore del “Piccolo Teatro” e più tardi sovrintendente alla Scala, ha concordato una tournée in Jugoslavia del “Piccolo Teatro” che a Fiume ha ottenuto un grande successo.
Nel 1956 ha risolto positivamente il problema legato alla tragica situazione in cui venne a trovarsi il Dramma Italiano, che era in pericolo di chiudere i battenti. Non accettando le decisioni delle autorità locali, riguardanti il trasferimento a sedi più periferiche e il licenziamento di gran parte degli attori, si è recato a Belgrado presso il Governo federale, perorando con valide argomentazioni le causa del Dramma fino ad ottenere piena soddisfazione.
Una volta pensionato, dal 1961 ha ritrovato le condizioni ideali per riscoprirsi poeta, romanziere ed autore di racconti. In questi anni si è dedicato al progetto di un incontro tra scrittori italiani e jugoslavi, che è stato realizzato nel 1964 con un impegno notevole sia da parte dell’editore Rebellato che dal Rotary. La morte lo ha colto il 2 marzo 1981, mentre stava rivedendo “Il cavallo di cartapesta”, romanzo che gli stava molto a cuore in quanto strettamente legato a Fiume.
La figura e l'opera di Osvaldo Ramous sono legate alla sua città natale, Fiume, vissuta prima e dopo l'esodo della popolazione italiana al volgere della Seconda guerra mondiale. A seguito dell’esodo, la componente italiana di Fiume ha trovato in lui un prolifico animatore culturale, che cercava di mantenere aperto un ponte con l'Italia in un periodo estremamente difficile. Non a caso, anche nelle sue liriche il tema ricorrente è il dilemma – che accomuna come una maledizione tutti i “rimasti” – tra l'“andarsene” e il “restare”, nonché il problema dell’impossibilità di riconoscersi e ritrovare la propria pace in un mondo ostile e sconosciuto.
Poeta dotato di una sensibilità sottile, vicino alla lirica di tipo ermetico o ermetizzante in un primo tempo, è tuttavia rimasto un solitario essenzialmente fedele a se stesso, intento a interrogare la propria interiorità e partecipe delle inquietudini dell'umanità contemporanea.
Ramous avrebbe inoltre intrattenuto nel secondo dopoguerra un intenso epistolario con Enrico Morovich, scrittore e saggista italiano sempre di origine fiumana, significativo sia per le personalità dei due corrispondenti sia per la storia umana dell’esodo, con Morovich che non accoglie i ripetuti inviti dell'amico, da una parte combattuto dal desiderio di rivedere Fiume, dall'altra assalito dal timore che lo stato emotivo della vista all'amata città gli riapra la ferita del distacco.
Pubblicato nel 2008 come romanzo inedito e postumo, nonché di difficile reperimento in Italia, “Il cavallo di cartapesta” rappresenta il primo romanzo nell’ambito della letteratura della Comunità Nazionale Italiana che fa riferimento esplicito all’esodo, tema tabù al tempo della sua stesura (1967). Narrando le vicende di Roberto Badin, rimasto a Fiume dopo l’esodo e per certi versi alter ego dell’autore, il romanzo affronta le trasformazioni, le ambiguità e i sentimenti di un’epoca difficile in un territorio in cui convivevano lingue e culture diverse. Si legge infatti nell’incipit che “nel corso della sua vita non ancor proprio lunghissima, Roberto ha avuto cinque cittadinanze, senza chiederne alcuna”.
Note critiche ispirate a “Osvaldo Ramous. Lo sradicamento dei rimasti”, di Gianna Mazzieri, in La Battana, n. 97-98, 1990.
Nato a Sussak, sobborgo di Fiume, nel 1906, quando la città faceva ancora parte del Regno d'Ungheria. Si è diplomato in ragioneria nel 1924, impiegandosi successivamente prima in Banca d'Italia, poi presso i Magazzini generali.
Nel 1929 ha conosciuto Alberto Carocci, direttore ed editore di riviste, che gli ha aperto le porte di Solaria e La Fiera Letteraria, con le quali ha avviato una collaborazione. È del 1936 la sua prima, significativa, creazione letteraria, “L'osteria sul torrente”, che è stata pubblicata da Solaria, Seguiranno “Miracoli quotidiani” (1938), “I ritratti nel bosco” (1939), “Contadini sui monti” (1942) e “L'abito verde” (1942). In quegli anni ha pubblicato saggi e racconti anche ne “Il Selvaggio” e in “Oggi”.
Gli ultimi anni di guerra e i primi del dopoguerra, particolarmente cruenti per Fiume e per tutta la Venezia Giulia, lo hanno portato ad interrompere per alcuni anni la propria attività letteraria, che riprenderà solo nel 1962, con Racconti e Fantasie.
Nel 1950 ha deciso di abbandonare la propria terra di origine, che nel frattempo è passata alla Jugoslavia, e di emigrare in Italia. Dopo aver vissuto per alcuni anni in varie città italiane, a Napoli, Lugo, Viareggio, Busalla e Pisa, si è stabilito a Genova nel 1958, dove risiederà per oltre trent'anni.
A Genova è tornato a pubblicare, dopo tredici anni di silenzio, romanzi e racconti, fra cui: “Il baratro” (1964), “Gli ascensori invisibili” (1981), “I giganti marini” (1984), “Piccoli amanti” (1990). Nel 1990 si è trasferito nella zona di Chiavari-Lavagna, dove poi si spegnerà, ottantasettenne.
I racconti d’esordio di Morovich, scritti tra il 1930 ed il 1935 e raccolti nel volume “L’osteria sul torrente”, non consentono di individuare con esattezza la futura identità della narrativa di Morovich. Se i primi brani della raccolta, ambientati per lo più tra boschi e torrenti, presentano una visione pacata e minuziosa di una realtà popolata da uomini mediocri e talora cinici, i successivi brani, collocati in ambienti cittadini, rilevano il proposito dello scrittore di svincolarsi dal minuto descrittivismo delle pagine precedenti per introdurre alcuni accenti surreali.
Successivamente, si allontana del tutto dal realismo, scegliendo una linea di narrazione ironica e disincantata, favolistica e fantasiosa, surreale e tuttavia capace di creare l’illusione di raccontare verità, per svelare solo nel finale a sorpresa la sua effettiva qualità di racconto onirico. Dalla primavera del 1937 il suo impegno letterario si rivolge quasi esclusivamente alla prosa fantastica, alla favoletta, e al racconto surreale, con scritti ispirati in maniera diretta agli stessi sogni di Morovich. Tali racconti vengono pubblicati su giornali e periodici, e in breve tempo diviene uno dei più richiesti narratori di terza pagina, comparendo con assiduità su diversi quotidiani (“L’ambrosiano” di Milano, “Il Messaggero” di Roma, “Il Piccolo della Sera” di Trieste, il “Corriere di Alessandria”) e su diffusi settimanali di attualità (come “Oggi”) oltre che sulle consuete riviste culturali (come “Il Convegno”, “La Riforma Letteraria”, e “Rivoluzione”).
Si cimenta inoltre in romanzi, con schemi narrativi più distesi ed attenti ai risvolti psicologici dei personaggi, ma confermando al tempo stesso gli elementi onirici, come ne “L’abito verde” (1949), in cui si alternano nel corso della vicenda i personaggi reali e viventi ai fantasmi.
Un anno prima di morire, nel 1993 ha pubblicato “Un italiano di Fiume”, una raccolta di prose che costituisce una commossa rievocazione della propria città d'origine e delle proprie vicissitudini in terra italiana.
Note critiche ispirate a “Enrico Morovich: l’onirica realtà” di Francesco de Nicola in “La Battana” n.97-98, 1990.