Videoconferenza organizzata dall' ANVGD di Roma tenuta il 24 maggio
Vista la difficoltà di recarsi a Fiume, organizziamo un incontro di tutti i fiumani, discendenti e simpatizzanti, il 15 giugno a Padova. Ci troveremo alle 10,30 nel sagrato della Basilica del Santo, alle 11 seguirà la messa, alle 13 pranzo conviviale a cui seguiranno intrattenimenti vari. Per il pranzo e ogni altra necessità è bene prenotarsi presso la nostra segreteria allo 0498759050.
Dopo quasi un anno dalla pubblicazione, GIOVEDI', 29 aprile alle ore 17.30, sulla piattaforma ZOOM, si terra' la presentazione della versione in lingua croata del libro di Giovanni STELLI (traduzione di Damir Grubiša). Il libro verra' presentato da nomi illustri: Giovanni Stelli, autore, professore, filosofo, storico, presidente della Societa' di Studi Fiumani di Roma; Damir Grubiša, ex ambasciatore della Repubblica di Croazia a Roma, attualmente professore all' American University di Roma; Tvrtko Jakovina, noto storico croato, professore alla Facolta' di filosofia di Zagabria, Aljoša Pužar, culturologo, antropologo e scrittore fiumano, professore all'Universita' di Lubiana e Ervin Dubrović, direttore del Museo Civico di Fiume.
La presentazione dellibro avverra' online, sulla piattaforma ZOOM al seguente link:
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Comunità degli Italiani di Fiume
Zajednica Talijana Rijeka
Uljarska 1/II, 51000 Rijeka (Fiume)
Tel. +385 51 321 990
E-mail: cifiume70@gmail.com
Nella notte del 31 marzo è deceduta nella sua casa di Roma Vally Seberich, grande amica e benefattrice della nostra associazione.
Un breve filmato tratto dal TG5 del 10 febbraio
Intervento del nostro presidente all' assemblea del Consiglio Regionale della Liguria
Mi chiamo Franco Papetti, nato a Fiume, da famiglia fiumana da generazioni (risale al 1700 l’origine della mia famiglia) titolare di un’attività commerciale fondata nel 1858 che durò fino al 1945 quando fu nazionalizzata.
Sono il Presidente dell’Associazione fiumani italiani nel mondo che rappresenta i fiumani italiani che esodarono dopo la seconda guerra mondiale e Vice Presidente vicario di Federesuli, l’Associazione che collega Le più importanti associazioni degli esuli fiumani, giuliani e dalmati.
Ringrazio Il Consiglio Regionale della Liguria ed in particolar modo il Presidente GianMarco Medusei per aver voluto la mia presenza in questa solenne occasione del “Giorno del Ricordo” che mi coinvolge particolarmente sia per le cariche istituzionali da me ricoperte sia per la mia esperienza di vita di esule fiumano. Crescere lontano dai luoghi storici della mia famiglia non è stato né facile né semplice, basta poco per sentirsi diversi, affrontando spiegazioni e dibattiti sulla provenienza e sui significati di una scelta compiuta dagli adulti e sopportata in vari modi dalle giovani generazioni.
La legge del Ricordo e stata istituita con la legge Legge del 30 marzo 2004, n. 92, votata da quasi la totalità del Parlamento italiano, pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 86 del 13 aprile 2004 con la seguente denominazione :
"Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati"
L’istituzione del Giorno del Ricordo nel 2004 ha rappresentato una svolta importante per la storia degli italiani che furono costretti ad abbandonare l’Istria Fiume e la Dalmazia. La Repubblica italiana, ha inteso, come recita l’art. 1, “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Il ”Giorno del Ricordo” ha portato un pò di chiarezza in una storia dei confini orientali dell’Italia che speculazioni politiche hanno reso spesso di difficile comprensione soprattutto dei suoi aspetti più traumatici e laceranti
Val la pena contestualizzare da un punto di vista geografico e storico di cosa stiamo parlando, per dirvi chi siamo noi giuliano-dalmati.
La definizione di Venezia Giulia si deve al goriziano linguista glottologo Graziadio Isaia Ascoli nel 1863 che divise l'ampio territorio che dal nord est d'Italia si estendeva a oriente fino alle popolazioni slave e a mezzogiorno fino al mare Adriatico in tre entità geografiche accomunate dall'uso di idiomi veneti; più precisamente in Venezia Tridentina (capoluogo Trento), Venezia propriamente detta o Venezia Euganea (capoluogo Venezia), Venezia Giulia il territorio restante compreso tra le Alpi Giulie e l'Istria (città principale Trieste
Relativamente alla Dalmazia parliamo di una regione storica che prese il nome dalla tribù illirica che la abitavano, i “dalmati”, che inizia sotto Fiume per arrivare fino al fiume Boiana che segna il confine tra Montenegro e Albania.
La storia di queste terre e molto complessa e per ragioni di tempo darò solo dei brevi cenni. Il crollo dell’impero romano vide queste terre come luogo di scontro tra goti e bizantini; successivamente con l’arrivo dei popoli slavi nel VII secolo nelle pianure balcaniche, la popolazione romana si rinserrò nelle città della costa e nelle isole nelle quali poterono difendersi e costituire nel medio evo delle città comune che ebbero una storia simile a quella dei comuni italici (Ragusa, Spalato, Sebenico, Trau, Pola, Fiume) sono gli esempi più importanti) che crebbero e si arricchirono dove la lingua parlata era il dalmatico una lingua romanza discendente dal latino che scomparve definitivamente alla fine dell’ottocento. Queste città portano nomi italiani sin dalla loro fondazione, che quindi vanno rispettati per amore della storia e della civiltà che hanno saputo esprimere nei secoli e che continua ad essere presente ancora oggi grazie alla Comunità nazionale italiana che qui vive.
Per chi visita queste città salta agli occhi la presenza di Venezia che progressivamente cominciò ad esercitare la sua potenza marinara sull’Istria e sulla Dalmazia tanto che nel 1409 acquisì definitivamente il dominio della stessa ponendo fine ad una competizione secolare con l’Ungheria, e che tenne fino al crollo della Serenissima del 1797.
La potenza di Venezia si marcò anche con la diffusione del cosiddetto veneziano “di la da mar” che sostituì progressivamente il dalmatico e si diffuse in tutto il mediterraneo come lingua franca dei commerci. Venezia non dominò Fiume e Trieste che crebbero nella sfera degli Asburgo.
L’ottocento è il secolo dei grandi cambiamenti, con il congresso di Vienna del 1815 tutta la Venezia-Giulia e la Dalmazia passano sotto la dominazione all’Impero asburgico e tali rimarranno fino allo scoppio della prima guerra mondiale. L’ottocento è anche il secolo che porta allo svilupparsi delle aspirazioni nazionali degli italiani nella formazione di uno stato nazionale. Dopo la nascita del Regno d’Italia il sorgere dell’irredentismo italiano nella Venezia Giulia portò il governo asburgico, soprattutto a partire dal 1866 a favorire il nascente nazionalismo sloveno e croato, nazionalità ritenute più leali e affidabili rispetto agli italiani: diventa strategica l’applicazione del principio del “divide et impera”. Gli italiani della Dalmazia che rappresentavano nel 1700 quasi il 20% della popolazione soprattutto concentrati nei gradi centri cominciarono a diminuire ed a perdere importanza fino a divenire, a parte Zara, esigua minoranza.
Diverso il discorso sia per Trieste e Fiume da una parte, dove il grosso sviluppo economico di fine secolo rafforzò addirittura la componente italiana mentre in Istria la grande maggiorranza degli italiani era concentrata nelle cittadine della costa con minoranze slovene e croate che vivevano nei centri agricoli dell’interno.
Il complesso dell’italianità adriatica assediata maturò, molto spesso, la corrente politica irredentista non più figlia del Risorgimento democratico mazziniano e garibaldino bensì del nazionalismo imperialista che si contrapponeva al crescente senso di appartenenza dei popoli slavi. E’ un nodo cruciale, il principio che spiega le tragedie del Novecento: per la prima volta nella storia, nazionalità che avevano vissuto in pace e in collaborazione per secoli si trovarono contrapposte, praticamente nemiche.
Soprattutto dopo la prima guerra mondiale quando dopo la fine del conflitto con l’accordo di Rapallo i confini del Regno d’Italia furono portati allo spartiacque inglobando quindi circa mezzo milione di sloveni e croati. La Dalmazia fu assegnata quasi totalmente, ad eccezione di Zara con una sua piccola enclave, al nuovo stato del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni che si era costituito nel 1918 dopo il crollo dell’impero asburgico e diventerà Jugoslavia nel 1929.
La situazione si complicò ulteriormente con l’avvento del fascismo che si propose l’obiettivo della bonifica etnica volta ad italianizzare le zone abitate dagli slavi, chiamati alloglotti, mediante l’esclusione dalla vita pubblica, la chiusura delle scuole slave, l’italianizzazione dei cognomi, la proibizione di parlare in pubblico lo slavo, favorendo l’emigrazione colonizzatrice italiana.
L’obiettivo fascista non fu raggiunto anzi creò l’effetto opposto di rafforzare l’identità dell’elemento sloveno e croato creando un senso di rivalsa verso l’Italia e indirettamente verso l’elemento italiano.
La seconda guerra mondiale porterà - come diceva lo storico Ernesto Sestan - allo “sradicamento della quercia della cultura romana e poi veneziana dalla sponda orientale adriatica”;
dopo l’invasione della Jugoslavia nell’aprile del 1941 si arrivò al tragico 8 settembre 1943 quando per gli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara iniziò la tragedia delle epurazioni e delle foibe.
Vale la pena chiarire cosa sono le foibe: si tratta di inghiottitoi naturali caratteristici della zona carsica, profondi anche centinaia di metri utilizzati dagli abitanti della zona come depositi di materiali di scarto o di ciò che si voleva eliminare e utilizzate dai partigiani jugoslavi per occultare le vittime dei massacri. Simbolo di questa tragedia è diventata Norma Cossetto, molte strade e piazze oggi portano il suo nome ma il suo sacrificio è emblematico di ciò che successe a migliaia di italiani nel 1943 in Istria e nel 1945 sul Carso di Trieste e in varie tornate a Zara dove gli omicidi ebbero il mare come testimone e tomba.
Dopo l’8 settembre i tedeschi occuparono la Venezia Giulia e costituirono La Zona d'operazioni del Litorale adriatico o OZAK (acronimo di Operationszone Adriatisches Küstenland comprendente le province italiane di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e sottoponendola alla diretta amministrazione militare tedesca). Così misero fine alla prima tornata delle foibe ma certo la loro presenza, con una politica repressiva di occupazione, non fu meno tenera con la popolazione.
Con la fine della guerra, con il ritiro delle truppe tedesche, tutta la Venezia Giulia viene occupata dalle truppe jugoslave e mentre in Italia si festeggiava la fine della guerra comincia per i giuliani il periodo più tragico della loro storia che li porterà al quasi totale abbandono delle terre sulle quali avevano da sempre vissuto.
Questo periodo che va dal 1° maggio 1945 e si protrae con eccezionale intensità fino al dicembre 1945 porta una seconda ondata di violenza, con migliaia di esecuzioni sommarie con le vittime che vengono fatte scomparire nelle foibe, processi, deportazione di militari e civili parte dei quali perirà di stenti o verrà liquidata oppure come a Zara, mediante annegamenti in mare, chiamate appunto “foibe blu”. E tutto questo e voglio sottolinearlo “a guerra conclusa”
La repressione partì dal movimento rivoluzionario jugoslavo che si stava trasformando in regime convertendo, quindi, in violenza di stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani.
Come dice la relazione della commissione mista storico culturale italo-slovena, un esempio unico di collaborazione voluta nel 2001:” l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili al fascismo e alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo stato Italiano si fuse con il disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali in funzione dell’avvento del regime comunista e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo”. Molti omicidi e sparizioni sono volte a colpire l’elemento italiano della regione visto come nemico e oppositore al nuovo regime comunista.
Le foibe furono quindi una strage etnico-politica come sottolineato dai Presidenti italiani nel Giorno del Ricordo, a partire da Giorgio Napolitano e vieppiù ribadito dal Presidente Mattarella lo scorso anno. Quello di Tito era un progetto politico-nazionalistico finalizzato ad annettere alla nuova Jugoslavia tutta la Venezia Giulia togliendo di mezzo quella classe dirigente che avrebbe potuto difendere l’italianità di quelle terre.
Quante furono le vittime? I numeri sono diversi ma mai si avrà una stima definitiva. Furono 5.000, 8.000/10.00 come affermato dalle truppe anglo-americane di occupazione? Furono vittime innocenti.
Ecco perché continuano ad essere oggetto di discussione anche perché nonostante l’approvazione del “giorno del ricordo” continuano a circolare tesi negazioniste, riduttiviste o giustificazioniste in barba alla risoluzione del Parlamento europeo di Strasburgo del 19 settembre 2019 che con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti abbia riconosciuto il retaggio comune di tutti i popoli europei dei crimini commessi dalle dittature comuniste e naziste con omicidi di massa, genocidi e deportazioni. Ecco perché chiede l’affermazione di una cultura della memoria condivisa che respinga i crimini fascisti e comunisti.
Per noi giuliano-dalmati la violenza nei confronti della popolazione portò inesorabilmente all’esodo, ovvero allo spostamento volontario di una comunità, motivata da ragioni morali, religiose o politiche. Fu pulizia etnica? Non tutti concordano sul termine. Ma i numeri parlano chiaro.
L’esodo degli istriani, fiumani e dalmati coinvolse la quasi totalità della popolazione di queste terre dove da sempre avevano vissuto e prosperato. Nel 1944 i giuliano-dalmati erano 300.000, nel 1953 coloro che rimasero, volontariamente o costretti, erano 35.784 diventati nel 2002 19.784.
Il 90% della popolazione italiana abbandonò i territori ceduti alla Jugoslavia dopo il trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947.
Facciamo alcuni esempi: gli italiani di Pola che erano nel 1946 46.569 ne resteranno 4000, Fiume dei 43.000 fiumani italiani esoderanno 38.00 (88%), la quasi totalità degli abitanti di Zara dopo 53 feroci bombardamenti anglo-americani che distruggeranno quasi totalmente la città dalmata.
E così in tutte le cittadine istriane e molte delle quali resteranno quasi senza abitanti.
Se ne andarono operai ed intellettuali, uomini in vista e contadini, un mondo mise fine alla sua dimensione comunitaria costruita in secoli di storia e permanenza in queste terre. Perché se ne andarono, le ragioni sono diverse, elenchiamone alcune:
La prima va ricercata nel clima di repressione, insicurezza e paura instaurato dal regime totalitario comunista jugoslavo che si esprimeva anche con un forte connotato nazionalista,
la seconda va ricercata nella politica di snazionalizzazione
e la terza per ragioni economiche come
Gli italiani se ne andarono esercitando l’opzione ufficiale o fuggendo senza documenti o assicurazioni, senza certezze su come avrebbero affrontato la profuganza.
Ricordo le parole che continuava a ripetere come una cantilena mio nonno Amedeo con dolore e rimpianto esule a Sanremo qui in Liguria: “non se podeva, non se podeva restar a Fiume”
Un aspetto importante riguarda l’accoglienza in patria.
Ci furono slanci di solidarietà, è vero, ma in generale i profughi vennero accolti con diffidenza se non con ostilità. Il Paese si dimostrò completamente impreparato ad accogliere un così alto numero di persone in quanto completamente distrutto dalla guerra e agli inizi di una dura ricostruzione. I giuliano-dalmati vennero smistati in 109 campi profughi disseminati in tutta la penisola. Si trattava di ex campi di prigionia dismessi, di caserme in condizioni di totale abbandono, edifici fatiscenti o baracche, letti fatti di pagliericci di foglie di granturco, servizi igienici quasi completamente assenti, riscaldamento approssimativo, divisioni di box famigliari fatti con coperte o pareti di faesite per i più fortunati.
Basta leggere lo splendido libro della fiumana Marisa Madieri, moglie di Claudio Magris, che nel libro “Verde acqua” descrive la situazione inumana di abbandono e promiscuità nel silos di Trieste, primo ricovero per coloro che scelsero la libertà.
Finirono in questi campi un campione come Abdon Pamich, medici ed avvocati. I più fortunati furono accolti dai parenti ma tutti trascorsero anni di difficile assestamento. Lo ritroviamo nelle testimonianze di Ottavio Missoni, di Franco Luxardo e di tanti altri che, come loro, hanno rappresentato un fiore all’occhiello nell’Italia ricostruita, Enzo Bettiza, Fulvio Tomizza, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Sergio Endrigo e tanti altri, compresi i loro figli e nipoti che hanno continuato a donare il proprio ingegno all’industria, alla cultura, alla politica, alla scienza, allo spettacolo in Italia. Sono stati esuli e nell’animo continuano ad esserlo, vivendo sempre con il ricordo ed il rimpianto delle loro terre abbandonate.
La Jugoslavia, perseguendo la sua politica di stampo comunista procedette alla nazionalizzazione e alla confisca di tutti i beni di coloro che avevano optato per la cittadinanza italiana: con il trattato di pace di Parigi si stabiliva che l’Italia avrebbe dovuto pagare la cifra di 125.000.000 di dollari come risarcimento dei danni di guerra causati dall’invasione della Jugoslavia dell’aprile del 1941; con successivi accordi si stabilì che i beni abbandonati sarebbero andati, contrariamente a quanto veniva stabilito in tutti gli accordi internazionali che prevedevano l’intangibilità delle proprietà private, in compensazione del debito italiano. Restava aperto il debito verso gli esuli: ma erano gli anni del silenzio, la guerra andava dimenticata in fretta, erano gli anni della politica estera decisa dall’America, gli esuli e le loro richieste erano un elemento di continuo disturbo: il Governo italiano procedette a versare alcuni acconti nel corso degli anni (l’ultimo è del 2001) con valutazioni catastali risalenti al 1938 con coefficienti irrisori di rivalutazione. “Con il costo di una casa ci siamo pagati un pranzo, anzi una merenda” diceva la gente. E’ una storia ancora in fieri, la partita non si è mai chiusa definitivamente. Molti sono convinti che si pratica la politica dell’attesa…del trapasso di tutti gli aventi diritto. E si dimentica che gli esuli hanno pagato il debito di guerra di tutta l’Italia.
50 ANNI DI OBLIO
Dopo gli accordi di Londra del 1954 (ricordato come memorandum di Londra del 5 ottobre 1954) con i quali Trieste veniva restituita all’Italia, il confine orientale e tutte le sue problematiche e ancor più i temi più scottanti come le foibe e l’esodo diventano un argomento che sparisce dalla politica italiana, dalla cultura, dalla storia, dalla scuola tanto che nessun storico ne parla, nei manuali e nelle enciclopedie alla parola foiba si fa menzione solo al fatto geologico carsico e l’esodo non esiste.
Ora c’è da domandarsi perché? Perché 50 anni di damnatio memoriae?
Le motivazioni sono innumerevoli e possiamo così riassumerle:
Quindi per oltre cinquant’anni il discorso esuli e foibe è stato completamente abbandonato diventando problema locale e solamente oggetto di discussione a Trieste e ricordato dagli esuli nelle loro riunioni.
La svolta è avvenuta dopo il crollo del muro di Berlino, quindi con la fine della guerra fredda e della contrapposizione dei blocchi, ad opera del Presidente della Camera Luciano Violante che nel 1996 parla delle atrocità perpetrate dai partigiani croati e sloveni che avvennero in Istria e in Venezia Giulia che accompagnarono e seguirono la liberazione dicendo testualmente ”l’unico modo per conquistare la piena autonomia rispetto al passato è raccontare tutto il passato con pienezza e verità considerando nel bene e nel male parte della storia d’Italia. E una storia di vinti vittime del comunismo jugoslavo. Le stragi colpirono una parte significativa della popolazione civile ed inerme rea solamente di non volere l’annessione della propria città alla Jugoslavia e vennero tacitamente rimosse dal discorso politico, dalla storiografia, dal comune senso degli italiani.”
E finalmente con la legge 92 del 30 marzo 2004 viene istituito il “Giorno del ricordo”, come abbiamo detto votato dalla quasi totalità del parlamento italiano. Un piccolo anche se tardivo riconoscimento alle sofferenze patite da questo piccolo popolo che sacrificò tutto per mantenere la propria libertà e la propria identità italiana.
Con il “Giorno del Ricordo” la storia della Venezia Giulia diventa parte della storia nazionale. Agli esuli viene riconosciuta la dignità della difficile scelta di rimanere italiani al cui valore umano e civile sacrificarono tutto.
Questo è il sedicesimo anno che celebriamo la Giornata del ricordo, nella data di quel 10 febbraio 1947 quando fu firmato il trattato di Pace di Parigi che consegnava le nostre terre italiane alla Jugoslavia di Tito, disperdendo un popolo che aveva sempre vissuto con la lingua e la cultura italiana in territori ritenuti tali tanto che Dante nella Divina Commedia, canto IX dell’inferno, scrive “com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e i suoi termini bagna» (Inferno, Canto IX, 113-1149), confermando che già nel trecento al golfo del Carnaro, dove si trova Fiume, venivano posti i confini della nazione italiana.
La parola ricordare deriva dal latino cor/cordis che significa cuore, quindi la giornata del ricordo non deve solo essere una manifestazione burocratica che cita i fatti al confine orientale dell’Italia alla fine della seconda guerra mondiale, bensì una partecipazione emotiva e commossa, un atto di memoria, un riconoscimento delle speranze che istriani fiumani e dalmati ebbero di vivere in sicurezza la loro italianità.
Il “Giorno del Ricordo” non può e non deve essere un punto di arrivo da archiviare il giorno appresso ma un punto di partenza per nuove ripartenze e riconoscimenti continui.
Grazie al cielo, nella nuova Europa, gli esuli giuliani hanno cominciato già da lungo tempo un percorso di ritorno culturale ed intellettuale nelle terre dalle quali sono fuggiti ma dove hanno lasciato la loro anima e le loro radici. Siamo di fronte al tentativo concreto di ricomposizione di un popolo che gli eventi storici hanno così duramente punito, una ricomposizione tra esuli, la maggioranza, ovvero coloro che scelsero di andarsene e coloro, la piccola minoranza italiana che ancora esiste in Slovenia e Croazia, che scelsero o furono costretti a rimanere.
“Esule a me stesso mi sento” – scrive in una poesia il poeta Osvaldo Ramous, una delle voci più alte del panorama letterario fiumano, in un contesto che “ogni giorno mi ridiventa straniero”. Si sentiva esule in patria con i pochi che come lui considerava “veterani di fughe mancate”.
Quanta sofferenza.
Anche la produzione letteraria è stata condannata ad una separazione forzata, per decenni non è stata in grado di attraversare il confine.
Cicerone diceva “historia magistra vitae” e l’esperienza dolorosa degli istriani, fiumani e dalmati può davvero dare e insegnare molto all’Italia e all’Europa di oggi.
Le Foibe e l’esodo devono diventare un’occasione di ulteriore riflessione sulla costruzione dell’Europa dei popoli basata su comuni aspirazioni di democrazia e di tolleranza. Le memorie non potranno essere mai totalmente condivise ma la possibilità di incontrarsi e confrontarsi rappresenta un traguardo sicuramente raggiungibile. Proprio in relazione a questo è iniziata da tempo anche una ricomposizione politica tra i paesi che si contesero queste terre ovvero Italia, e gli eredi della Jugoslavia, Croazia e Slovenia. Cominciata nel 2010 con il concerto dei tre presidenti di Italia, Slovenia e Croazia (Napolitano, Turk e Josipovic) che si incontrarono e si dettero la mano con un gesto di riconciliazione a Trieste fino alla manifestazione del 13 luglio 2020 a Basovizza con un riconoscimento reciproco dei torti subiti tra Italia e Slovenia che sicuramente ha contribuito alla nomina da parte della Slovenia come capitale Europea della cultura 2025 di Nova Gorica insieme a Gorizia.
Il percorso da compiere è ancora lungo ma la strada è già tracciata ed il riconoscersi nei comuni ideali europei e con la voglia di camminare insieme potrà portare a sanare anche se solo in parte le ferite inferte della storia.
Gli esuli hanno accettato il loro destino con dignità e come è nella tradizione di questo piccolo popolo si sono rimboccati le maniche e si sono inseriti, ricominciando dal niente una nuova vita. Oggi lottano perchè le loro cultura, la loro storia, le loro tradizioni possano non solo essere ricordate ma continuare ad esistere.
Mi avvio alla conclusione ricordando la fiumana LICIA PIAN recentemente scomparsa che trovò qui a Recco la sua nuova patria e che è stata per anni l’anima degli esuli in Liguria.
Termino mandando, un forte abbraccio a tutti gli istriani, fiumani e dalmati sparsi in Italia e nel mondo con tre parole in dialetto che riassumono la nostra caparbietà e la nostra forza:
“ IERIMO, SEMO E SAREMO”
Vi ringrazio sentitamente della vostra cortese attenzione
In occasione del prossimo Giorno del Ricordo, il nostro presidente Franco Papetti sarà il relatore ufficiale alla cerimonia organizzata dall' Assemblea Legislativa della Regione Liguria che si terrà in videoconferenza il :
giovedì 4 febbraio 2021 alle ore 10,30
sarà possibile seguire l' evento in diretta su TeleNord o collegandosi al sito www.regione.liguria-it/consiglio/diretta-seduta.html
Per ricordarla pubblichiamo la motivazione con cui la nostra associazione l' ha nominata concittadina illustre.
AFIM-LCFE
Durante il 56° raduno a Montegrotto Terme (5-6-7 ottobre 2018), l’ assemblea dei soci ha approvato all’ unanimità la nomina a socio onorario e inserimento nell’ albo d’oro di:
Illuminata Volponi Trentini
Motivazione:
In tutto il mondo degli esuli, Illuminata Volponi Trentini è conosciuta come la “Lumi”, diminutivo di Illuminata Trentini, novantenne Redattrice del giornaletto “El Fiuman” che lei, da 38 anni a Newport (Australia), scrive, stampa col ciclostile e lo spedisce piegato in quattro, a tutti i fiumani sparsi nel mondo che glielo richiedono.
Zaratina, fuggì profuga in Italia su una barca, che venne mitragliata dalle Vedette titine e nell’incendio che ne derivò, perse la mamma mentre lei stessa rimase ustionata. Profuga con l’IRO in Australia, conobbe il marito – il fiumano Gino Trentini Trinaistich – e insieme con lui fondò il giornaletto nel 1980 per diffondere la fiumanità poco nota della nostra Fiume di Giovanni Kobler e quella più recente di Mons. Luigi Maria Torcoletti, insieme a tanti altri ricordi delle nostre usanze descritti dai molti collaboratori che erano e sono tuttora onorati della sua ospitalità editoriale.
FIFI: Santissimi Vito, Modesto e Crescenzia, ma ti ga visto roba! Anche el teremoto adesso! E che teremoto! Povera zente de le zita de Petrinja, Sisak, Glina e Zagabria, me se strisi el cor!
RIRI: Poveri! Ma cossa ne deve capitar ancora sto ano tondo e disgrazià! Vara, conto le ore spetando che el passi e festegerò co’ una botiglia de spumante co’ el sarà passado, e al 2021 zercherò de farghe paura subito. E ghe dirò: ‘Metemo subito le robe in ciaro: o ti righi drito, o te scancelo de el calendario e passo subito al 2022!’
FIFI: Proprio cussì! Sotoscrivo. Adesso però, xe de pensar de aiutar quanto che se pol sta povera zente. El Sandi Basić membro della Croce Rossa della Region Litornaneo Montana e volontario dell’Associazion LA ZENTE PER LA ZENTE (Ljudi Za ljude) el ne xe subito partido per Petrinja co’ la Croce Rossa, come che i ga dà el alarme, per andar ‘iutar la popolazion e anche altri ghe vegnirà drio. Ma che fadiga ‘sti ultimi giorni de el ano! Che rompimento de ale, che sbatimento de beco!
RIRI: Le teste de aquila insempiade come ti no’ le capissi che se pol imparar qualcossa anche da i momenti tristi.
FIFI: (Subito la se impiza, come el fogo). Cossa mi no’ capisso! Ti no’ ti capissi!
RIRI: (Anche ela la se impiza e la taca zigar.) Mi no’ capisso?
FIFI: Sì, ti! Te se vedi che ti xe una complessada, perché quela volta, i te ga taià la testa prima a ti, e a mi solo ani dopo, e ti xe gelosa!
RIRI: (Sempre più imbufalida, o meio, inaquilida). Mi gelosa? Ti ti xe una papamola e le papamole no’ le xe capaci de coabitar in solo corpo!
FIFI: Ti ti xe una smafera!
RIRI: Ti no’ ti ga creanza!
FIFI: Ti no’ ti capissi gnente de gnente e… (la fa un soriseto, come per dir: ‘no’ so se se gavemo capido’) …ti xe una mocolosa!
RIRI: Mocolosa a mi? (Adesso veramente la ga visto nero, quasi quasi, de nervoso, non la xe gnanche più dura de ‘recia).
FIFI: Ja, ti! Slimigosa!
RIRI: Vara che mi de mocoli no’ ghe ne go! Me sufio sempre el beco co’ el mocador!
FIFI: Se ti lo disi ti…Alora, visto che semo sempre mi e ti, ti e mi, due teste su un corpo de aquila, vedemo un poco de colaborar. Ti ne dovessi rapresentrar a una riunion la sora, a la Union de le Aquila a Due Teste Girae de Una Sola Parte, la famosa Union ADTGUSP.
RIRI: (Ciapada come in contropiuma, un poco la tituba). No’ posso, no’ so, no’ son preparada su el argomento…no’ conosso gnente de la Union ADTGUSP.
FIFI: Bon, alora a la riunion manderò el cucal…
RIRI: El cucal no!
FIFI: El cucal sì!
RIRI: Ma xe una altra specie de usel!
FIFI: El ga le ali?
RIRI: Sì.
FIFI: Co’ el se fa sentir, el ziga?
RIRI: Sì.
FIFI: El fa cache e pissin insieme?
RIRI: Sì.
FIFI: E alora, xe la stessa roba. El ne rapresentarà lui.
RIRI: Fa come che ti vol. Mi per el momento me contento de far afari e comprar altre robe che svola.
FIFI: Per esempio?
RIRI: Un bich de aroplani de guera, cussì, per mandarli a ocolize su e zo per el ziel de la Croazia e de la Union ADTGUSP, se me salta in testa, cussì… Xe bel comprar aroplani de tanto in tanto! Tuti che sta a la testa de un qualcossa, meti de un corpo de aquila o de un Paese, tipo un presidente, ghe piase comprar, de tanto in tanto, anche aroplani.
FIFI: Aroplani ti disi?
RIRI: E de quei boni! Fati riposar per ani in boti de rovere. Ne farà far zerti svoli per el ziel de la Croazia e ne scalderà i budei co’ farà fredo!
FIFI: ???
RIRI: (Trionfante) Trape!
FIFI: Trape? O Grape?
RIRI: Ja, Grapa, cussi se ciama…na bona roba de marca svedese!”
FIFI: Ma Gripen!
RIRI: Ma che Gripen, che de gripe e covid19 ghe ne gavemo tuti le bale piene!
FIFI: In soma de le some: ti volessi comprar aroplani de seconda man? Secon hand avion? Francesi e israeliani, come che fa el nostro presidente?
RIRI: E perché lui sì e mi no?
FIFI: Perché lui xe presidente.
RIRI: E dunque un capo. Anche mi son un capo. E che el tachi comportarse lui de capo del Paese, che mi sarò ben felice de comportarme come che se dovessi comportar un capo, una testa de una aquila, e far el mio lavor stando qua, impirada in zima a la Tore de Fiume.
FIFI: Riri mia, mi me sa che tute e due semo stade infetade de una malatia che ghe xe ciapada in ‘sti ultimi tempi a certi capi de Paesi, anche stranieri, anche in altri continenti, e se stemo sbarufando a sproposito e come mai ne la nostra vita. Ma no’ dovessimo esser imuni a ‘ste malatie?
RIRI: Anche i presidenti del Governo e de un Stato dovessi esser imuni a certe influenze de stagion e far meno de sbarufrase e i dovessi dar el bon esempio a zitadini, no’ te par?
FIFI: Ma ga fato piacer vederli adesso che i xe andadi insieme trovar i teremotati e ga lassado star le monade.
RIRI: La zente xe contenta de saver che i colabora per el ben del popolo.
FIFI: Perché le monade le podemo contar mi e ti che semo due pajaze, ma i politici xe bel che i sapi darghe a la zente un senso de sicureza, specie co’ ghe trema la tera soto i piedi e no’ ti sa più indove che girarse.
RIRI: Coss’ ti vol far, ‘sto ano la xe andada cussì. Lassemo star. El 2020 el sta finendo e co’ el finirà, che el se porti via barufe inutili e altre robe poco utili e dirio invece ‘ssai danose. Stemo un poco cuzi tuti, ‘iutemose tuti quanti, spetemo che passi e i Covidi e i No’ Covidi, e staremo veder come che andarà co’ ‘sti vacini che xe rivadi, e i No vaxi che i speti e che i se “vaxini” co’ i volarà e co’ ghe sarà passà la paura che i ghe sfichi drento el corpo un CIP. Tanto, più controladi de cussì, fioi mii, fra telefonini, sateliti e tuto…
FIFI: Speremo che ‘sti ultimi giorni del 2020 i sparissi e che i se porti via i malani, le pestilenze nove e le credulità vece come el mondo.
RIRU: quele dei bacuchi insempiadi da la età e quele de i Milleniers insempiadi da la tropa tecnologia.
FIFI: Che ‘sto 2020 el se porti via teremoti e i asteroidi de pasagio, le falsità, le cativerie e le inimicizie, che a la Comunità Italiana ghe vegni un poco più de voia de star insieme e no’ divisi e barufadi.
RIRI: Che ‘sto ano vecio se porti via la malapolitica e la malaeconomia, la malasalute e la malasorte.
FIFI: Ti vol che te facio el oroscopo per el 2021?
RIRI: Ma va in mona!
FIFI: Ti vol che te facio portar un poco de vin brulè dal Filip Jakovac?
RIRI:???
FIFI: Xe quel bravo putel de Cosala che va in giro per el mondo co’ la Jugo, anche in Mongolia er iera co’ la Jugo! Se el sa che ti ga voia de un poco de vin brulé, el xe capace de filar, in un batibalen, zo per le scale de Cosala. Basta che ghe facio un fis’cio!
RIRI: Ti disi che no’ el devi star sempre su a Cosala a farghe la guardia al suo Spelacchio?
FIFI: ???
RIRI: El albero de Nadal che sta davanti a la vecia stazion radiofonica, davanti a Comunità locale de Cosala!
FIFI: Go sentì parlar de ‘sto Sperlacchio, i diseva che el iera cussì bruto e disgrazià, che el pareva come quel bruto anatrocolo de la Fiaba de Andersen.
RIRI: Ma sentir ‘sta storia de quanto che el iera bruto e disgrazià, al povero Spelacchio cosalan, ghe xe vegnù in socorso certe done del rion, Marina e Sanja e Ana. Vara, le me pareva le Tre Marie. Le se ga impietosì e le ghe xe vegnude in aiuto a Filip e Kristian, che i sarà bravi a riparar i motori de le vece Jugo, per carità, ma poco pratichi de adobi de alberi. E le se ga dà de far e le ga messo el albero in cicara, tuto adobà e pien de lustrini.
FIFI: Insoma, ‘na picia storia de Nadal, cocola, cocola, minima, minima, ma che fa piacer scoltar.
RIRI: Morale de la favola: anche un picio aiuto, anche un picio gesto, pol servir a farne a tuti la vita più bela.
FIFI: E mi per ‘sto ano la finirio qua, e fario un fis’cio.
La FIFI la fis’cia e, ecote! Trotando zo per le scale de Cosala, te ariva el Filip Jakovac, con tre biceri de carta pieni de vin brulè fumante, pronto per scaldarghe un poco el cor a le nostre due teste de l’aquila e per brindar con lore e farse vegnir i pomei rossi del vin.
E dopo gaver brindà, spudà tre volte per tera contro le disgrazie, dopo gaverse butà tre volte el sal drio le spale e dopo che el Filip Jakovac se ga ravanà, per prudenza e con una punta de lungimiranza, certe parti intime de el corpo, i tacà tuti e tre cantar una canzon. E el ritornel el faceva cussì:
Noi torneremo balar
Noi torneremo cantar
Noi torneremo cantar
Mi e ti, mi e ti, vicini!
Noi torneremo, mio amor
Noi torneremo cantar
Noi torneremo, mio amor
Mi e ti!
Jeeesuuus i Maaariiiaaaa!
Videoconferenza a cent' anni dall' impresa: un laboratorio di idee ed utopie.
registrazione https://www.youtube.com/watch?v=GR9sE6uqVo4